A svegliarmi quella mattina di oltre quarant’anni fa bastò il profumo di buono che dalla padella messa a scaldare sulla stufa, arrivò fino in camera da letto.
In un lampo fui giù dal letto, i piedi nudi sui freddi gradini della scala ed eccomi in cucina.
Tutto era pronto, i panini con la frittata, le uova sode, la mela ed un’ammiccante tavoletta di cioccolato fondente.
Che bello, il gran giorno della gita scolastica era finalmente arrivato e fuori dalla finestra un cielo terso faceva presagire che la giornata sarebbe stata stupenda.
Tutte quelle buone cose trovarono posto in uno zaino grigioverde, ed ora ero pronto per uscire, con buon anticipo sull’ora fissata per incontrare i compagni ed il maestro.
Le ultime raccomandazioni di mia madre mi seguirono fin sulla scala che io scesi a salti per arrivare fin sulla porta di casa che, veloce, mi richiusi alle spalle.
Ero fuori, che bello, e che luce abbagliante e che promesse in quelle ombre allungate che in quella mattina di primavera parevano sporgersi dalle case come a seguire, curiose, il gruppo di bambini che partiva per la gita.
In gita dove? A Parigi, a Londra?
No, no, molto, molto meglio, noi andavamo in gita, a piedi, nientemeno che a Fontnarossa e l’avvenimento non era certo di second’ordine…
Quel giorno avremmo scoperto cosa si celava al di là della montagna che segnava il nostro orizzonte quotidiano, era finalmente giunto il momento di gettare lo sguardo oltre la siepe…
Dopo un breve appello ci incamminammo lungo la strada ed ognuno di noi portava a tracolla una borsa, un piccolo zaino, un cestino pieno di gioia.
I calzoni corti con l’immancabile maglione legato alla vita davano alle nostre ombre l’aspetto grottesco di tanti piccoli nani saltellanti qua e là, buffamente vestiti.
Scendemmo fino alla statale lucida e nera, tutta d’asfalto, per poi attraversare il ponte alto sul Trebbia ed iniziare la salita lungo i soleggiati tornanti di Canneto.
Lontano le cime dei monti, laggiù Rovegno con le sue piccole case e la scuola che tentavamo di indovinare, tutt’attorno una candida nevicata di narcisi.
Lo straordinario silenzio era rotto ora dalle nostre risa ora dal magico canto del cuculo che rimbalzava per la vallata, tracciandone l’ampiezza.
Borgo, minuscolo gruppo di abitazioni, ci accolse come un abbraccio con la sua fontana chiacchierona posta proprio lì, all’inizio del paese, ai bordi di un prato.
La sosta fu istintiva; seduti sull’erba, dopo esserci abbondantemente rinfrescati e scherzato con l’acqua, cominciammo a gustare le nostre provviste.
Quanta ricchezza nell’umiltà di quelle fette di pane avvolte nella ruvida carta marrone e quanto sole in quel tuorlo d’uovo sodo racchiuso nel suo bianco morbido scrigno!
Fu a quel punto che la mia immaginazione di bambino venne attratta e colpita da un piccolo e insignificante avvenimento che ancor oggi ricordo con estrema chiarezza: uno dei maestri che ci accompagnavano tirò fuori dallo zaino una lucente scatoletta di metallo dai bordi arrotondati, armeggiò attorno al coperchio riuscendo con un certo impegno ad arrotolarlo tutto attorno alla apposita chiavetta. Come incantato rimanevo ad osservare le grosse dita goffe che stringevano quel piccolo aggeggio, volevo sapere a che cosa avrebbe condotto tutto quell’impegno.
Con aria stupita vidi il maestro, incurante del mio sguardo, armeggiare ancora un poco con la scatola, quindi afferrare tra l’indice ed il pollice un minuscolo pesce d’argento per quel mozzicone di coda che aveva, sollevarlo in alto fino all’altezza del naso e poi…oop…lasciarlo cadere dritto in bocca, emettendo un sonoro grugnito di soddisfazione.
In quel gesto poco regale ebbi modo di comprendere, allora, che anche i maestri erano persone come tutte le altre ed il loro mito incominciò per me da quel momento a incrinarsi.
La gita proseguì non più per la strada carrozzabile, bensì per un sentiero che conduceva a Bosco, piccolo paese nato tra i castagni e rallegrato dalla presenza di un torrente che con le sue acque pareva segnare un limpido cristallino confine tra il mondo ordinario e quello delle fiabe.
Più in su, poi, l’antico campanile romanico, la piccola chiesa in pietra viva e, finalmente, le prime case di Fontanarossa.
A noi bambini parve che la gente quasi ci venisse incontro, avevamo raggiunto la meta del nostro viaggio, eravamo felici, ci sentivamo grandi.
Mio padre (era uno dei maestri), si intrattenne a conversare qua e là un po’ con tutti e tutti gli riservarono cordialità e sorrisi.
Seppi, in seguito, che aveva insegnato per qualche tempo proprio a Fontanarossa e che lì aveva avuto modo di conoscere gente buona, ospitale e allegra.
Doverosamente, anche se con poco entusiasmo, facemmo visita al parroco che non mancò di tediarci per un buon quarto d’ora con il predicozzo d’obbligo e passando ad accarezzare con mani fredde e quasi trasparenti le nostre teste spettinate. Ricordo che mio padre si trattenne a conversare con lui dopo averci concesso il permesso di dar fondo alle provviste rimaste, seduti sul sagrato della chiesa. Giocammo a rincorrerci, animando con le nostre voci le strette viuzze e gli angoli delle case.
Il tempo passò in fretta e giunse il momento di radunarci e di fare i preparativi per il ritorno.
Lungo la discesa, fatta direttamente attraverso i campi fioriti, raccogliemmo interi fasci di narcisi che l’indomani inondarono del loro profumo tutta la scuola.
Ognuno di noi scolari, a testimonianza della bella giornata trascorsa, infilò nel calamaio il lungo stelo di un fiore raccolto per osservare nel corso della settimana, con ingenuo stupore, la trasformazione del bianco candido dei petali in blu inchiostro.
Torno sempre volentieri a Fontanarossa e ancora riconosco quegli stessi sorrisi che avevano accolto allora mio padre, e sebbene per i più anziani io rappresenti solo una sua continuazione (l’è u figliu du mestru), questo non mi dispiace, anzi mi rallegra e rafforza in me quel senso di appartenenza e continuità che mi rassicura, che mia aiuta a sentirmi non estraneo.
E’ in questi momenti che rispolvero con orgoglio il mio stretto dialetto di Rovegno, ricco di quelle asprezze lessicali che lo caratterizzano e ritrovo i suoni, le inflessioni, i modi di dire e le arguzie sottili che hanno nutrito la mia infanzia.
Sono tornato al centro del mio vero essere, il cammino che ho percorso in questi cinquant’anni mi ha riportato al punto da cui ero partito; col mio vivere ho soltanto descritto un cerchio più o meno ampio, come quello del falco, delle lune e delle stagioni. Ora sono davvero a casa mia.
Enrico Rettagliata
(Articolo tratto dal numero 22 del 15/06/06 del settimanale “La Trebbia”)
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